Dove il cammino sussurra, non chiama

Via degli Dei – Da Bologna a Firenze, passo dopo zampa

Ci sono viaggi che si decidono a tavolino, con mappe, guide e paragrafi evidenziati. E poi ci sono quelli che cominciano in silenzio, con uno sguardo insistente, una pettorina tra i denti e un cane che ha già deciso per te. Fu lui, quella volta, a portarmi sulla Via degli Dei. Io mi limitai a seguirlo.

Era fine maggio. Bologna si stiracchiava in una luce gentile, i portici ancora mezzi addormentati, e l’aria già piena del profumo del pane appena sfornato. Lo zaino era carico, ma non troppo. Solo l’essenziale: una borraccia, qualche biscotto, una maglia di ricambio, la sua ciotola, la sua coperta e il libretto con le tappe segnate a matita. E poi noi due, come al solito. Uniti da quel filo invisibile fatto di camminate, improvvisazioni e fiducia cieca.

Uscimmo da Piazza Maggiore lasciandoci alle spalle il vociare di chi aveva appena cominciato la giornata. Il cane, che per l’occasione indossava la sua pettorina da “grandi avventure”, camminava davanti con passo deciso, annusando ogni angolo, ogni tombino, ogni piccola crepa nel selciato. Salimmo i portici verso San Luca come due pellegrini antichi, con il fiatone ma anche una certa leggerezza nel cuore.

Il sentiero iniziava davvero a Casalecchio, oltre il Reno. Da lì in poi, la città si scioglieva in boschi, salite sassose, profumi di terra bagnata e silenzi di quelli buoni. Il primo tratto fu una lezione di ritmo: non troppo veloce, non troppo lento. Il cane dettava il passo, ogni tanto si fermava a guardarmi come per chiedere: “Resisti, umano?” Io rispondevo con un cenno e lui riprendeva, sempre avanti, sempre sicuro.

Attraversammo il Parco Talon, dove le fronde disegnavano ombre lunghe e fresche. Superammo borghi silenziosi come Badolo e Monzuno, dove il tempo sembrava essersi seduto su una panchina e lì fosse rimasto. Ogni tanto incontravamo altri camminatori: coppie con gli zaini grandi, escursionisti con bastoncini telescopici, e ogni tanto un altro cane, salutato con scodinzolii e ringhi educati.

Dormivamo in piccoli rifugi o agriturismi dove lui era sempre il primo a essere accolto. C’era chi gli portava una ciotola d’acqua prima ancora di darmi il benvenuto, chi lo accarezzava come se lo conoscesse da sempre. Una notte la passammo a Madonna dei Fornelli, in una stanza che odorava di legno e lana, con la finestra che dava su un campo fiorito. Lui si sistemò in fondo al letto, col muso sulle mie caviglie, e dormì senza muoversi fino all’alba.

Il tratto successivo ci portò sulla Flaminia Militare, l’antica strada romana riscoperta sotto la vegetazione. Camminarci sopra era come poggiare i piedi su qualcosa di eterno. Il cane sembrava capirlo: per un tratto non annusò nulla, si limitò a seguirmi in silenzio, quasi solenne. Ci fermammo su un sasso piatto per mangiare. Io tirai fuori il panino con pecorino e rucola, lui ricevette in premio qualche crocchetta e una carezza tra le orecchie.

Al Passo della Futa il vento ci trovò. Tagliava l’erba alta e muoveva le nuvole come tende leggere. Il cimitero militare, con le sue croci bianche ordinate come pensieri, ci fece camminare piano. Lui si fermò davanti a una lapide più lunga delle altre e si sedette. Rimase lì un po’, con quello sguardo che usano i cani quando sentono qualcosa che noi non possiamo.

Scendemmo poi verso San Piero a Sieve, tra ginestre e sentieri stretti, e infine verso Fiesole, dove la città cominciava a sussurrare in lontananza. L’ultima salita verso Monte Ceceri fu lenta, silenziosa, quasi malinconica. Come se il cammino sapesse che stava finendo e non volesse.

Arrivammo a Firenze nel tardo pomeriggio. Il sole filtrava tra le case come un ultimo applauso. Entrammo in città passando per San Domenico, scendendo verso il cuore di pietra e cupole. Il cane si fermò in Piazza della Signoria, si accovacciò proprio sotto la statua di Cosimo I e si leccò una zampa come per dire: “Io, qui, ci ho camminato. Ho annusato storie e mangiato vento.”

Mi sedetti accanto a lui. Avevo le gambe stanche, le spalle indolenzite, ma il cuore pieno. Lui chiuse gli occhi, un istante, poi li riaprì. Si voltò a guardarmi. E in quello sguardo c’era tutto: il sentiero, i prati, i rifugi, gli incontri, il caffè bevuto in piedi, le pietre sotto le zampe, la libertà che si sente solo quando non c’è bisogno di spiegare nulla.

Capì che era tempo di andare. Ci alzammo. Firenze ci guardava. Noi la guardammo indietro. E il cammino, anche se finito, sembrava non volerci lasciare più.




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