Il lago che si specchiava meglio di noi

Era uno di quei giorni in cui anche il cane si sveglia prima della sveglia. Forse per via della valigia in corridoio o del profumo dei panini già imbustati, fatto sta che alle sette meno cinque era già lì, seduto, con la pettorina tra i denti e lo sguardo che diceva: “Sbrigati, umano”.

Si partì da Monguelfo, che sembra il nome di un posto delle fiabe, ma è un paese vero, con vere case, veri pini e veri panifici che aprono presto. La strada verso il Lago di Braies sembrava fatta apposta per addolcire l’attesa: curve dolci, aria fresca, e quel tipo di silenzio che non fa paura, ma compagnia.

L’arrivo fu un piccolo stupore: il lago era lì, immobile come una foto venuta troppo bene. Il cane lo guardò con diffidenza, come se l’acqua fosse colpevole di nascondere qualcosa. Poi mise una zampa avanti e decise che sì, si poteva partire.

Il giro del lago comincia con un sentiero largo e gentile, proprio come il passo dei cani curiosi. Ogni dieci metri c’era qualcosa da annusare, ogni cinquanta da marcare. E ogni tanto, un incontro: una bimba con un gelato che colava più veloce della passeggiata, un signore con un cappello da montagna che raccontava storie al suo labrador più vecchio di lui, una coppia silenziosa che si teneva per mano senza guardarsi mai.

Il cane ogni tanto si fermava e sembrava voler dire: “Ma li vedi, questi umani? Sempre in cerca di qualcosa, quando basterebbe annusare un pino per sentirsi meglio”.

A metà giro, ci fu la spiaggia. Niente a che vedere con Rimini, ma per un cane con le zampe polverose e la lingua a penzoloni, era un sogno. Tuffo. Schizzi. Sabbiatura automatica. Risate. Scrollata d’acqua addosso al proprietario (scena madre). E infine, riposo all’ombra di una roccia.

Si ripartì più lenti, più stanchi, ma più contenti. Passammo accanto alla piccola chiesa di Maria am See, così graziosa che anche il cane si fermò a guardarla. “Chissà se lì fanno benedizioni per i beagle indisciplinati”, pensai. Lui, come risposta, si grattò l’orecchio.

Prima di tornare alla macchina, ci sedemmo su una panchina di legno vissuto. Il lago era cambiato colore almeno tre volte da quando eravamo arrivati. Il cielo, come ogni pomeriggio di montagna che si rispetti, si stava preparando al teatrino delle nuvole gonfie.

Il cane si acciambellò vicino alle scarpe, con quel sospiro profondo che usano solo loro quando tutto è andato esattamente come doveva. Io bevvi un caffè del distributore e mi sembrò buonissimo. A volte serve poco.

In macchina, mentre lui già dormiva col muso sulla zampa, pensai che i viaggi migliori non sono quelli pieni di cose da vedere, ma quelli che ti fanno venire voglia di tornarci. E che forse il segreto è avere accanto qualcuno che non ti chiede dove stai andando, ma si fida e basta.

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