Il rumore delle zampe sulla pietra – un viaggio in Valle Maira

L’umana ha detto che avevamo bisogno di silenzio.

Io ho capito che si partiva.

Perché quando lei dice così, vuol dire che tira fuori la felpa grande, quella che sa di pino e biscotti dimenticati in tasca. E allora io inizio a trottare per casa come se dovessi allenarmi, anche se il viaggio lo facciamo sempre in macchina.

Siamo finiti in un posto che si chiama Valle Maira. A me sembrava il nome di una cagnetta educata, di quelle che non ti rubano mai il posto sul divano. Ma no, era una valle vera, piena di curve e di odori che cambiano ogni cinque minuti.

Appena scesi dalla macchina ho capito che lì anche l’aria annusa.

Era tutto un profumo di terra bagnata, legna umida, formaggio che si stava sciogliendo da qualche parte, e muschio. Tanto muschio. Avevo l’impressione che anche le rocce mi stessero annusando mentre passavo.

Il primo giorno abbiamo camminato poco. L’umana diceva che era per “ambientarci”, ma secondo me era solo per prendere fiato dopo il viaggio. Ci siamo fermati in un paesino minuscolo, con le case tutte in pietra e le porte basse. Io dovevo abbassare le orecchie per entrare nelle stalle. Sì, perché le stalle erano ancora lì. E io, che normalmente non apprezzo l’odore del fieno, lì ho sentito qualcosa di buono. C’era anche una gallina che camminava libera. L’ho guardata con rispetto. Lei, meno.

Abbiamo dormito in una stanza con il soffitto di legno e la coperta a quadri. L’umana mi ha messo la mia coperta accanto al letto, ma io ho preferito appoggiare il muso sulla sua scarpa. Aveva ancora addosso l’odore del sentiero.

E poi, lo ammetto, mi sentivo piccolo.

Non mi capita spesso.

Il secondo giorno abbiamo fatto una salita. Di quelle che fanno respirare forte. Lei parlava poco, ma ogni tanto diceva “che meraviglia”, “che pace”, “che pane profumato” — sì, perché a un certo punto, in mezzo al niente, è uscito un signore con un forno acceso. Sfornava pagnotte grandi, tutte screpolate. E anche se ha detto che non aveva nulla per me, mi ha fatto assaggiare la crosta. Croccante e fumante. È stato uno dei momenti migliori del viaggio.

(Lo dico sottovoce, per non offendere il panorama.)

La cosa bella della Valle Maira è che tutto sembra vero.

I sassi sono veri. I cani che ti guardano dai cortili sono veri. Il vento che ti si infila nelle orecchie è verissimo. Non ci sono rumori finti, né negozi per comprarsi un’emozione. Se vuoi qualcosa, la devi fiutare.

E io ho fiutato tutto. Ho messo il naso nei buchi dei muri a secco, ho seguito tracce che mi hanno portato a una staccionata, poi a un laghetto minuscolo con l’acqua che odorava di cielo.

L’umana sorrideva spesso. E non faceva le foto. O meglio, ne ha fatte solo due. Una a un mulo che portava legna. E una a me, quando mi sono seduto a guardare il tramonto con lei. Dice che sembravamo due vecchi amici, in silenzio.

Alla fine del terzo giorno, ci siamo fermati davanti a una chiesetta minuscola. Lei si è seduta sul muretto, io ai suoi piedi. E per un po’ non abbiamo detto niente.

Io ascoltavo il rumore del suo respiro.

Lei, credo, il mio.

Quando siamo tornati alla macchina, l’umana ha detto “questa valle me la tengo dentro”.

Io non ho detto nulla, ma le ho messo il muso sul sedile. Era il mio modo per dire:

“Anche io. Ma io la tengo nel naso.”

 

 

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