Un racconto della Banda della Valbasca
Skye non diceva buongiorno. Appena sveglia, tirava dritto verso la terrazza, si sdraiava sul suo divanetto e restava immobile come una sfinge. Potevi offrirle carezze, biscotti o la password del Wi-Fi. Niente. Finché non finiva il risveglio, non esistevi.
A parte questa scena da diva hollywoodiana, Skye era una cagnetta ragionevole: crocchette al mattino, umido alla sera, legnetto da rosicchiare se giravano le scatole. E soprattutto: niente frutta. Mele? No. Uva? Mai. Fragole? Per favore. Bastava avvicinarle una fettina per vederla girare la testa con disprezzo.
Finché non comparvero le more.
Un gelso in fondo alla passeggiata cominciò a lasciar cadere piccole palline nere e dolci. Skye, che passava di lì tutti i giorni senza degnarlo di uno sguardo, una mattina si fermò. Ne annusò una. La assaggiò. Ne mangiò tre. Poi cinque. Poi sedici.
Iniziò così: come cominciano tutte le storie che poi si complicano.
Tornò a casa soddisfatta, con l’alito da confettura e l’aria di chi ha appena fatto un affare.
Ma verso notte, il pancino cominciò a ragionare da solo. Faceva bollicine, gorgogli, piccoli discorsi sottovoce. Niente di tragico, sia chiaro. Ma abbastanza per far voltare qualcuno nel letto.
Successe anche il giorno dopo. E quello dopo ancora.
Skye continuava con le sue merende segrete, e il suo stomaco con le repliche serali.
Bio, certo… ma di quel bio che ne faresti volentieri a meno.
Poi, una mattina, arrivò davanti al gelso, lo guardò… e passò oltre.
Nessuna spiegazione. Nessun pentimento. Solo un passo in più e via.
La sera, il pancino tacque.
E da allora, ogni volta che vede una mora a terra, Skye si ferma, la fissa per un secondo, poi tira dritto. Come a dire: “Sì, ti ricordo. Ma non cascarci più.”
Morale:
Chi sa quando fermarsi, dorme meglio. E fa dormire anche gli altri.
