Il cane che raccoglieva cose

In un paese senza nome (ma con una panchina gialla molto comoda), viveva un cane che raccoglieva cose.

Non ossi. Non palline.

Cose.

Una molletta caduta.

Un guanto spaiato.

Una piuma dimenticata su un davanzale.

Si chiamava Otto, aveva le zampe corte, le orecchie lunghe e il naso infallibile. Ogni mattina usciva col suo carrellino rosso attaccato alla coda (con un elastico da mutande, gentilmente offerto da Nonna Pina).

La gente del paese lo guardava e scuoteva la testa.

– Che cane strano, raccoglie robaccia.

– È inutile.

– Non serve a niente.

Ma Otto non rispondeva.

Non sapeva parlare.

E anche se avesse potuto, probabilmente non avrebbe detto nulla.

Era troppo impegnato a cercare meraviglie.

Una mattina, dopo una settimana di pioggia, trovò una biglia blu incastrata tra due mattoni. La mise nel carrellino e la portò a casa.

La sera stessa, il piccolo Elia – che aveva perso la sua biglia preferita e piangeva da due giorni – la ritrovò davanti al portone. Senza biglietto. Ma con un biscotto accanto.
Il giorno dopo fu il turno della signora Adriana, che ritrovò la sua vecchia spilla a forma di ape sullo zerbino, accanto a una piuma.

Poi toccò al panettiere, al postino, a un gatto bianco e persino al sindaco.

In pochi giorni, il paese cominciò a cambiare.

Tutti iniziarono a lasciare piccole cose per Otto: un tappo colorato, una scatolina, un pezzo di spago con un nodo buffo.

E Otto le distribuiva. Senza regole, senza logica.

Solo con il naso e con il cuore.
Non parlava. Ma sapeva a chi serviva cosa.

O forse no.

Forse era solo bello ricevere qualcosa di inutile e gentile, senza motivo.

Il sindaco volle premiarlo con una medaglia.
Otto la prese, la annusò, poi la mise nel carrellino.

Il giorno dopo, la ritrovarono sul banco della scuola elementare, accanto a un biglietto scritto con la zampa (forse aiutato da un piccione alfabetizzato).

Diceva solo:

“Non tutto serve. Ma tutto può servire a far sorridere.”

 

 

 

 

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