Tito era un cucciolo con le orecchie lunghe e il passo leggero. Ogni mattina correva in giardino per salutare il sole, annusare i cespugli e controllare se gli uccellini erano già svegli. Ma un giorno, mentre rincorreva una farfalla, si accorse di una cosa strana: sull’erba erano rimaste delle piccole orme rosse.
Si fermò, incuriosito, e fece un altro salto. Stavolta le orme erano gialle.
Provò ancora, più forte: verdi.
Tito guardò le sue zampe e scoprì che non c’era né pittura né fango. Solo lui, l’erba e quei colori che spuntavano come fiori dopo la pioggia.
Così iniziò a sperimentare. Quando era felice, le orme diventavano arancioni come il tramonto. Quando si sentiva solo, erano azzurre e leggere, quasi invisibili. Quando si spaventava, uscivano viola, come il cielo prima del temporale.
Il suo umano, Matteo, non vedeva niente di tutto questo, ma ogni volta che Tito correva in cerchio, rideva e diceva:
— Guarda come sei vivace oggi!
E Tito capiva che, anche se lui non vedeva i colori, sentiva la stessa cosa.
Con il passare dei giorni, il giardino divenne un mosaico segreto. Ogni zampa lasciava un’emozione, ogni corsa raccontava un momento.
E Tito imparò che non serve parlare per farsi capire: basta lasciare le proprie orme, colorate o invisibili che siano.
